In genere si parla di autostima per indicare un buon rapporto con se stessi, ovvero un buon dialogo interiore, una buona immagine di sé, e quindi anche una reale capacità di andare incontro agli altri e di tollerare eventuali frustrazioni. Nel linguaggio qui proposto, tutto ciò dovrebbe ricapitolarsi nel concetto di “autoamore”, o “autoaccettazione”, o “amore per se stessi”. Avere un buon rapporto con se stessi significa proprio avere un rapporto non condizionale con se stessi, cioè un rapporto tanto solido da non vacillare nelle circostanze in cui realisticamente una persona deve avere una scarsa stima di sé. Stimarsi sempre e comunque significa avere un’immagine grandiosa. E’ segno di equilibrio psicologico stimarsi obiettivamente e non già “stimarsi a sufficienza” o “molto”. Se io mi stimassi molto dovrei trascurare i miei lati mediocri o di scarso valore. Se mi stimassi “a sufficienza” dovrei trascurare sia certe miei lati davvero belli che le mie inadeguatezze, oppure annullare la specificità della mia persona in una sorta di media aritmetica. I cosiddetti crolli narcisistici avvengono proprio quando la persona che ha un’autostima “forzata” deve improvvisamente ammettere un fallimento, e non si verificano invece mai quando una persona è abituata a esaminare i propri limiti volendosi comunque bene .
Spesso, gli equivoci sull’autostima vengono collegati a quelli sulla cosiddetta “insicurezza”. Ma perché mai dovremmo essere “sicuri” di noi stessi? Siamo fragili e limitati. Amarsi è più che legittimo, ma sentirsi “sicuri” è pura presunzione. Sentirsi sicuri di essere amati dagli altri è pura fantasia e sentirsi sicuri di meritare l’amore è pura illusione. Sentirsi sicuri di essere sempre e comunque stimabili è delirio di onnipotenza. Di fatto quando si parla di persone prive di “insicurezze” il più delle volte si parla di individui arroganti e abili a mascherare la loro vera umanità. In terapia quindi si lavora non per il”rafforzamento” dell’autostima o del senso di sicurezza. Se il cliente arriva ad accettare la realtà finirà non già per sentirsi “sicuro” ma per smettere di volerlo essere. Con la propria precarietà ritroverà la propria umanità e la capacità di amarsi e sperare (senza pretese o garanzie) di essare anche amato dagli altri.